Se pensiamo alle grandi domande della vita, ce ne sono
alcune che non vogliono proprio andarsene via. Io ne ho una che rimbalza ciclicamente
nei miei pensieri e che mi lascia sempre sbigottita: cos’è la scrittura per me?
Più di una volta mi sono chiesta che cosa rappresentasse e perché fosse così importante,
nonostante tutto. È come un tarlo, un indizio di felicità di cui riesco solo ad
intravederne il riflesso, qualcosa a cui non riesco a rinunciare.
Questa domanda mi è ritornata in mente ieri sera mentre tornavo
a casa dopo il lavoro. Ero in macchina e sono passata vicino a un parcheggio.
Lì c’era un ragazzo che giocava a calcio da solo. Contrariamente da quello che
si può pensare, quella non era un’immagine triste e nostalgica. Mi ricordava
tanto il gabbiano Jonatan Livinston che cercava di testare i suoi limiti
cavalcando le correnti ascensionali. Mi sono riconosciuta in quel ragazzo e ho
sentito dentro di me la voglia di scrivere non perché gli altri leggano ciò che
scrivo ma per riuscire a scorgermi nell’infinita confusione del mondo senza
dover rendere conto a nessuno.
L’anno scorso ho pubblicato il mio primo libro ed è stato un’esperienza
fantastica. Per un anno ho messo gran parte delle mie energie nella vendita del
libro. Man mano che mi avventuravo in quel mondo sentivo però una pesantezza
addosso che a tratti non mi faceva respirare. Cercavo di dare un senso alla scrittura,
solo che niente era più naturale tranne l’atto stesso di scrivere, cosa che
riuscivo a fare sempre più di rado.
Chissà se quella sana voglia di scrivere si può recuperare, chissà
se si può giocare con la scrittura stessa, e fare quel gioco solo per il gusto
di farlo? Io ci provo J.
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